CASA MORANDO

La casa di riposo Fondazione Antonio Morando  si riconosce nei principi slow ( sobrietà, rispetto, giustezza) e fa parte della rete slow essendo dal 2012, socio  istituzionale di  Slow medicine fino al 2014. 

Firmato in data 18/09/2013 un protocollo d’intesa tra la Fondazione Antonio Morando,  casa di riposo situata in Chiavari, piazza Solari 7,  rappresentata dal Presidente Prof. Torribio Guatteri e l’Associazione I fili, nella figura del presidente Dr.ssa Rosanna Vagge.

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La struttura come luogo di vita per ciascun individuo (04-07-2012)

Dopo una esperienza ospedaliera quasi trentennale rivolta alla gestione del malato acuto e critico, ho iniziato a assistere  gli anziani “ospiti” di strutture residenziali affetti, per lo più , da malattie croniche stabilizzate. L’esperienza  maturata  nel periodo in cui gestivo  il pronto soccorso e  la terapia subintensiva,  mi aveva portato alla convinzione che i vecchi sono abili a reagire  agli eventi critici, ma occorre rispettare  alcune regole, come la tempestività e l’essenzialità. L’organismo di un vecchio non permette ritardi o incertezze, è come una vecchia auto,   avevo scritto in una relazione  dal titolo ”L’anziano, un mondo in equilibrio tra grandi fragilità e risorse inaspettate” Per mantenerla inalterata nel tempo, bisogna rispettare i principi e le regole con cui è stata costruita e,  se improvvisamente ha un guasto,  bisogna fare subito l’intervento giusto che non può prescindere dalla conoscenza accurata del suo funzionamento globale.

Certo, il  passaggio dall’una all’altra attività non poteva definirsi lineare perché, di  differenze, tra pronto soccorso e casa di riposo, se ne contano parecchie: dal punto di vista dell’impatto, della relazione, delle attività, delle aspettative, delle speranze. Nell’urgenza le emozioni si consumano in pochi giorni, vige la logica del tutto o niente, del pianto o del sorriso, c’è poco spazio e tempo per altri sentimenti.  Nella cronicità   prevalgono rassegnazione,  rabbia, esasperazione  che proseguono, indefinitivamente, senza altri sbocchi,   fino alla morte. E con cronicità,  non intendo solo le malattie che non guariscono, ma anche e soprattutto la definitiva istituzionalizzazione del vecchio con inevitabile emarginazione dalla società. Perché, e questa è un’altra mia convinzione, la presenza di malattia fisica o psichica non impedisce di conservare  la voglia di vivere, allo stesso modo in cui la salute fisica o psichica,  non è una motivazione sufficiente per   rimanere in questo mondo e, tanto meno, per essere socialmente utili.

Da queste riflessioni, unite ad una buona dose di tenacia per l’incapacità a rassegnarmi a qualunque situazione di staticità, dalla casualità di essere diventata responsabile di una piccola casa di riposo  e di  trovarmi in totale sinergia con la direttrice e il CDA, dall’incontro, altrettanto casuale, con   l’antropologo Guerci con il quale condividevo un  grande amico, Antonio Terrizzi, che, purtroppo ha deciso di abbandonare la vita terrena all’età di solo 60 anni, è nata un’altra convinzione: le case di riposo, così come sono pensate e organizzate (almeno nella mia regione), a fronte di costi esorbitanti e non più  sostenibili, offrono risposte frammentarie e incomplete al mondo dei vecchi, sempre più variegato e superaffollato.

In Liguria poi, tra mare e monti, le soluzioni  organizzative per  i bisogni diversissimi  di pescatori e contadini, casalinghe e commercianti, indigeni o trapiantati, ricchi e poveri, sani e malati, motivati e non, sono  ulteriormente complicate  dalla  peculiarità del territorio e i problemi diventano, non di rado, insormontabili.

Come sostiene l’amico antropologo, è” […] indubbio che il problema prioritario riguarda l’organizzazione sociale e la messa in opera di politiche delle età che assicurino a tutte le generazioni delle condizioni d’esistenza degne e dei ruoli riconosciuti compatibili con le loro capacità e i loro bisogni, senza discriminazioni né esclusioni. 

Nel contesto sociale attuale, ove il segmento anziano della popolazione conosce una rapida espansione e dove quattro generazioni coabitano sempre più abitualmente, la separazione tra le età della vita non sembra dipendere dalle necessità demografiche e ancora meno dal buon senso, essa  è piuttosto dovuta alla semplificazione analitica e assai futile delle logiche strategiche del marketing. La “dittatura del mercato”, articolata secondo dei fittizi bisogni generazionali distinti e stereotipati, è divenuta da strategia di mercato un succedaneo culturale. La visione della vita parcellizzata in nicchie generazionali ha trovato nei media dei partner formidabili che l’hanno diffusa senza difficoltà alcuna in una società in piena crisi identitaria […]”.

Come si può non condividere questa preoccupazione?

Non si tratta di criticare  l’una o l’altra forma di organizzazione sociale, né di aggiungere modelli innovativi che spaziano dalla riabilitazione motoria a quelli psicoattitudinali,  della comunicazione e dell’espressività,  offerti ( a costi elevati) da professionisti della materia,   ma di constatare come sia difficile oggi, aggrovigliati in una matassa di leggi, disposizioni, regole, protocolli e per di più con scarse risorse economiche,  cercare, ognuno per la proprio piccola realtà, quella sorta di equilibrio, tra ciò che era una volta e ciò che è adesso in modo da permettere la convivenza di giovani e anziani, ma soprattutto la conoscenza e la comprensione degli uni e degli altri,  senza le quali viene meno la solidarietà e ne deriva isolamento e emarginazione ( e non solo degli anziani).

Oggi dobbiamo contare tutto e fare i conti con tutto e tutti: bisogna certificare, regolamentare, omogeneizzare, omologare ecc. ecc.  E così anche le intenzioni più benevole  vengono sminuzzate in tanti piccoli frammenti  che, nel loro complesso, sono tutti egualmente utili, adeguati, opportuni, ma è come se si volesse costruire un puzzle di migliaia di pezzi  avendo perso il coperchio della scatola che riporta il disegno d’insieme.

I bisogni degli anziani nella loro globalità  sono talmente differenti,  da caso a caso, dipendendo dalla personalità di ognuno di essi, malato o no, disabile o no, autosufficiente o no, e dalla relazione con gli operatori che è pressoché impossibile identificare dei criteri generali di comportamento. 

All’anziano non interessa se compiliamo  accuratamente  il piano assistenziale individuale secondo la valutazione multidimensionali sancita dalle linee guida,  se annotiamo sul diario clinico le variazioni del peso corporeo, le evacuazioni, la temperatura  e nemmeno se garantiamo l’animazione e l’attività motoria  per le ore settimanali corrispondenti ai  parametri di riferimento istituzionali .

L’anziano  deve sentirsi  utile, considerato,  amato e rispettato per quello che è stato, che è, e potrà ancora essere e ha il diritto, che diventa il nostro dovere, di portare a  conclusione il suo arco di vita nel modo migliore possibile. L’arco della vita che,  come un arcobaleno, ha infiniti colori con infinite  sfaccettature,  diversi e indistinguibili al tempo stesso. Come un arcobaleno, solo apparentemente, inizia e finisce all’orizzonte.

E’ evidente quindi, che, se vogliamo uscire dal circolo vizioso, se vogliamo contenere la spesa economica  e, nel contempo, dare all’anziano quello di cui ha bisogno, secondo la  sua scala di valori  che spesso non corrisponde ai bisogni cosiddetti primari, occorre avvicinarsi al problema in modo diverso, pensare e costruire diversamente l’ambiente, puntare sull’educazione all’ambiente e al cambiamento delle proprie condizioni e abitudini di vita,  proporre animazione e “terapia” del tempo libero pensata individualmente.

In altre parole, occorre promuovere un cambiamento culturale che deve necessariamente coinvolgere tutto il personale, con la consapevolezza di dare inizio ad  un percorso, lungo e  impegnativo, che non può essere imposto, né schematizzato, né protocollato, dove non esiste ordine gerarchico.  Come è possibile protocollare il buon senso, il vissuto, la relazione, la percezione, la sensibilità, l’arte?

Occorre creare, per ogni realtà, un modello organizzativo proprio, che, facendo tesoro di quanto la vasta letteratura in materia ci insegna, sappia tradurre in termini applicativi queste informazioni e sappia adattarle al contesto ed alle esigenze individuali investendo soprattutto sulle risorse umane,  nel rispetto dei  diritti  e delle prerogative inalienabili della persona, declamati a gran voce da tutte le organizzazioni internazionali, ma, così difficili, da raggiungere nei fatti concreti.

Il cambiamento culturale può essere promosso solo con un lavoro continuo e  specifico che sappia convogliare le diversità culturali e formative di ogni operatore e accrescere l’istruzione e le competenze  individuali e di gruppo.

E’ per questo che abbiamo iniziato a riflettere, insieme, ed è nato il  percorso formativo “ Arco della vita”, presentato nel 2010 per  gli operatori della “Fondazione Morando” e riproposto  nel 2011-2012  anche a personale esterno.  All’inaugurazione ha partecipato il Prof. Antonio Guerci,  con la lezione “ Antropologia e Salute”; alla conclusione del corso hanno partecipato Silvana Quadrino e Giorgio Bert, cofondatori di Slow Medicine, sul tema della medicina narrativa. Altri docenti sono stati Maria Grazia Sbarboro, educatrice, direttrice della Fondazione Morando e Stefano Bacciola, psicologo.

Nel percorso formativo, svolto con modalità interattive, sono stati posti in particolare rilievo gli aspetti psicologici, sociali e culturali, la responsabilizzazione,  il clima aziendale e il lavoro di gruppo, presupposti  fondamentali per offrire alla persona un approccio metodologico nuovo e antico allo stesso tempo, globale e individuale nello specifico, che può essere definito semplicemente ”antropologico”.

Perché l’ Antropologia, come sostiene il Prof. Guerci, più che  una disciplina che si colloca in  una posizione intermedia tra la biologia e le scienze umane, coniugata all’approccio sistemico, è una  attitudine nel pensiero.

Spesso interferenze di vario genere, tra le quali  il turnover del personale, la presenza di  operatori provenienti da altre realtà e culture, costringono  a dare priorità all’apprendimento delle mansioni rivolte ai bisogni primari ( igiene, alimentazione, farmaci) mettendo in secondo piano proprio gli aspetti relazionali e comunicativi che sono alla base di una assistenza geriatrica dignitosa.

L’ immagine culturale della vecchiaia, che ognuno di noi si costruisce in modo più o meno cosciente, condiziona i pensieri e le azioni che quotidianamente pratichiamo nei confronti degli anziani.

In questa ottica diventa  indispensabile  che chi si prende cura dell’anziano  acquisisca conoscenze  relative al contesto in cui deve operare, conoscenze che possano arricchire  le  competenze specifiche e  istituzionali di operatore socio sanitario, assistenziale, infermiere, medico, animatore, psicologo, fisioterapista e care-giver  di quel valore aggiunto che, seppur difficile da quantificare in termini misurabili,  è fondamentale per la tanta auspicata “umanizzazione”.

Lo staff di operatori potrà agire all’unisono come “educatore geriatrico” aiutando chi invecchia ad assumersi la responsabilità di “ Inventare la vecchiaia”  ( come dice Sergio Tramma) sia dal punto di vista individuale che collettivo “all’interno dei margini di pensiero e di azione consentiti ai soggetti individuali e collettivi, in un delimitato contesto sociale e culturale”.

Non si può  parlare “genericamente di anziani”, differenziati esclusivamente in base al punteggio AGED che, oltre a stabilire il minutaggio  dei bisogni assistenziali, secondo la scala di valori imposta dalla società, sancisce l’autorizzazione alla permanenza o meno all’interno delle residenze a seconda di rigidi  parametri strutturali e di personale, imposti dalla normativa.

Ci sono tante vecchiaie quanto gli individui.  La vecchiaia non si può banalizzare riducendo la sua  complessità a uno dei suoi molteplici aspetti … sistematizzarla  nel suo dispiegarsi … prevederla  nelle sue manifestazioni, bisogni e auspici”. ( “Inventare la vecchiaia” di Sergio Tramma)

Ancora una volta l’attitudine di pensiero antropologico ci può aiutare a trasformare il “tessutosociale” delle strutture per anziani in un “sinciziosociale”, in cui l’apparente disordine secondario alla fusione del citoplasma e alla locazione dei nuclei è in realtà espressione di una organizzazione sinergica altamente specializzata.

Altra nostra convinzione  è che la qualità funzionale ed estetica degli spazi, sia chiusi che aperti, abbia un ruolo determinante, non soltanto perché supporta lo sviluppo dei programmi terapeutici, ma perché richiama costantemente il valore e l’inviolabilità di ogni persona, riconoscendone  la  dignità, sia di chi ci abita , sia di chi se ne prende cura.

Una struttura per anziani deve proporsi come luogo di vita, in cui realizzare un progetto assistenziale, e deve essere in grado di dare all’ospite (termine improprio), meglio, a chi ci vive, e ai suoi familiari l’opportunità di godere di spazi aperti, dove il movimento è senza limiti e pericoli, e dove è possibile ripristinare un contatto con la natura.  E’ nata così l’idea del  giardino sensoriale, del condominio solidale, di locali attrezzati per incontri culturali, formativi ed educativi, progetti purtroppo non ancora concretizzati per intoppi legati al piano di bacino. Le finalità che ci siamo proposti sono piuttosto ambiziose.

Maratona km 5 – primo ristoro (22-09-2013)

Rileggo, dopo un po’ di anni, quanto avevo scritto a proposito del “Progetto arco della vita” presentato  nell’aprile 2010 in Chiavari presso la casa di riposo Fondazione Antonio Morando  e pubblicato su questo sito  con il titolo “La struttura come luogo di vita per ciascun individuo”.

L’articolo concludeva così: “ […] Siamo solo al primo km della maratona “Arco della vita”, il percorso è lungo e faticoso, non sappiamo quando ci sarà la prima tappa, né se esisterà mai un traguardo, ma … siamo partiti[…]”.

Mi accorgo solo ora  di essere arrivata al km 5. Ed ecco il  primo ristoro: acqua, integratori, spugnaggio. Bisogna fermarsi anche se le forze ci sorreggono:  i punti di ristoro non vanno mai saltati.

Ma cosa è successo in questi 5 km?

Siamo andati avanti piano, certamente, ma tenendo sempre a mente l’obiettivo: migliorare l’armonia di vita dei nostri vecchi e ridurre l’insorgenza di malessere psico fisico e di malattia.  Per ottenere questo è fondamentale “ promuovere la formazione di personale di assistenza geriatrica adeguata alle esigenze attuali. Credere nelle persone. Cambiare per migliorare”. Negli anni questa convinzione ne esce sempre più rafforzata.

E’ stato approvato l’ampliamento della casa per poter disporre di un locale, attrezzato sia come palestra che come luogo d’incontro culturale e ludico,  e a breve avranno  inizio i lavori.  Anche il giardino sensoriale è in dirittura d’arrivo. Questi spazi nuovi, esteticamente e funzionalmente migliori,  ci permetteranno di fare un piccolo passo avanti, supportando i  programma terapeutici e richiamando “costantemente il valore e l’inviolabilità di ogni persona, riconoscendone la dignità, sia di chi ci abita, sia di chi se ne prende cura”.

I punti di ristoro vanno rispettati, tutti, ma non ci si può soffermare troppo. La strada è molto, molto lunga e  il nostro pensiero deve rimanere lucido e precedere ogni nostro passo.

Ecco che la mia mente vola al “condominio solidale”.   Così è stato chiamato il progetto di ristrutturazione dell’immobile di proprietà della Fondazione,  situato a poca distanza dalla casa di riposo, occupato attualmente solo  da una persona di oltre 90 anni che usufruisce dell’assistenza dei servizi sociali del comune.

Il progetto prevede la realizzazione di sei appartamenti di piccole dimensioni, idonei ad anziani autosufficienti o con disabilità minime.

Già  alla partenza della maratona era chiara in me la convinzione che “le case di riposo, così come sono pensate e organizzate ( almeno nella mia regione) a fronte di costi esorbitanti e non più sostenibili, offrono risposte frammentarie e incomplete al mondo dei vecchi, sempre più variegato e superaffollato”. Figurati al km 5. E’ indispensabile mettere le mani avanti.

Il termine condominio solidale non mi simpatizza troppo, i condomini non hanno una gran bella fama.  A dire il vero non mi piace nemmeno cohousing o housing sociale.  Non vedo perché dobbiamo ricorrere sempre a termini  che non appartengono alla nostra lingua. Siamo forse privi di fantasia?

Potremmo chiamarli “appartamenti solidali”o semplicemente “appartamenti protetti”.

Pietro Bassetto è autore di un bel  articolo pubblicato recentemente sempre su questo sito dal titolo “Una casa solidale come scelta di recupero urbano” che offre spunti interessanti per le nostre riflessioni.

L’autore analizza le ragioni del perché   le esperienze di cohousing siano d’importazione da paesi nord europei e sottolinea come “[…]negli ultimi sessant’anni in Italia la proprietà della casa ed il primato del singolo privato ha avuto il sopravvento sul sociale, sul sistema di relazioni tra gli individui e ciò è avvenuto in proporzioni gigantesche rispetto agli altri paesi europei a capitalismo avanzato.Tutto questo ha conseguenze politiche evidenti […] ma ha forti conseguenze anche su un piano strettamente tecnico: patrimonio abitativo sottoutilizzato ed obsoleto, scarsa propensione ai trasferimenti ed ad introdurre migliorie, disattenzione per le parti comuni, ecc.”.

Inoltre, cita ancora Bassetto, il profilo degli anziani “si differenzia in misura sostanziale rispetto a quelli delle fasi storiche precedenti  per reddito, stato di salute e condizione abitativa;gli anziani d’oggi vivono in alloggi grandi rispetto alle loro esigenze (sono ormai famiglie ad uno o due componenti), con numerose barriere architettoniche, in discreto stato di conservazione ma con una dotazione impiantistica obsoleta, in campagna o in quartieri urbani in cui l’auto privata ha una forte predominanza.[…]”.

Insomma, siamo rimasti indietro per le ragioni più disparate, ma  è indubbio che la società deve pensare ad un cambiamento di rotta.

E allora perché non provarci? Sei  appartamenti “solidali” non sono molti, ma sono qualcosa, un inizio, un piccolo esempio.

Chiavari ne sarà orgogliosa.

Maratona Km 7,5 primo spugnaggio (18-10-2015)

Ci sono voluti più di 5  anni dalla partenza  per  arrivare al primo spugnaggio della maratona “Arco della vita” ed esattamente 2 anni e un mese per percorrere i  2,5 Km che ci separano dal quinto.

Siamo al primo spugnaggio del Km 7,5. Non sapevamo nemmeno se fosse previsto dall’organizzazione e quindi lo accogliamo con grande piacere. Rinfrescarci un po’ e sostare anche solo un attimo è  sicuramente una buona cosa.

La motivazione che ci ha indotto a fare il primo passo è sempre chiara nelle nostre menti: “Migliorare l’armonia di vita dei nostri vecchi e ridurre l’insorgenza di malessere psico-fisico e di malattia.  Per ottenere questo è fondamentale promuovere la formazione di personale di assistenza geriatrica adeguata alle esigenze attuali. Credere nelle persone. Cambiare per migliorare”.

I lavori strutturali della palestra e del giardino sensoriale si stanno concludendo; sembra incredibile, in fondo sono passati 15 anni da quando Maria Grazia, la direttrice della casa di riposo, li ha progettati nella sua mente perché supportassero i programmi di vita degli anziani richiamando “costantemente il valore e l’inviolabilità di ogni persona, riconoscendone la dignità, sia di chi ci abita, sia di chi se ne prende cura”.

Ebbene sì, 15 anni, per dare un senso ad uno spazio aperto, nel pieno centro della città, contornato da angoli di  storia, tanto bello quanto  intoccabile, come un tesoro racchiuso in uno scrigno di vetro abbruttito dal tempo che non ti permette di coglierne il valore intrinseco. 

In maratona, le trappole, gli imprevisti, i ritardi, le soste, possono sorgere improvvisi, ad ogni passo, per cui non c’è nulla da meravigliarsi. Succede. L’importante è non perdere di vista l’obiettivo e  andare avanti come si può, meglio ancora se a testa bassa, cosa che aiuta a non inciampare.

A dire il vero, ripensando agli ultimi km,  ci sono stati momenti di sconforto in cui è affiorato il pensiero di arrestarsi e addirittura tornare indietro. Mediamente abbiamo finito per procedere a zig zag, con passo strisciato,  cosa che non ci ha certo favorito ampliando enormemente la fatica della marcia. E’  stato per  la formazione obbligatoria, imposta dalla normativa regionale, e pure in tempi brevi, del personale di assistenza geriatrica.

La casa di riposo è una struttura piccola, ex IPAB,  accoglie 25 anziani  che all’ingresso sono parzialmente autosufficienti, preferisco chiamarli così, anziché NAP, acronimo di Non Autosufficiente Parziale. Ma lo scorrere inesorabile degli anni  fa sì che  tutti invecchino, sia gli ospiti che il personale e qualcuno sia colto da malanni più o meno invalidanti sicché, per evitare che gli anziani siano trasferiti ad altre sedi, la residenza si è attrezzata ad essere anche Residenza Sanitaria Assistenziale ( RSA). Addirittura  il comune, a buon rendere, ha autorizzato 25 posti di RSA, l’ASL solo 12 o 13,  per la regione siamo una RP ( Residenza Protetta). Per evitare ogni confusione, Maria Grazia ed io, ma anche il presidente del CDA e tutto il consiglio, preferiamo chiamarla Casa di Riposo, rimanendo fedeli al cartello affisso nel muro adiacente al cancello d’ingresso.

Insomma, vuoi per un motivo, vuoi per l’altro, il personale è cambiato quasi tutto. I più, alcuni dei quali in possesso dell’attestato di assistente familiare, che non conta, non erano in grado di affrontare la spesa aggiuntiva del corso  OSS per cui hanno dovuto rinunciare.

La formazione “Arco della vita”, che conta ancor meno di quella di assistente familiare, si è così dispersa nei vari ambiti della città ed è stata sostituita dal progetto “Parliamone insieme” mirabilmente condotto da Alessia, psicologa, nonché membro del CDA della residenza.  Il progetto è ancora all’inizio e quindi  ne parleremo un po’ più avanti, forse al km 10.

Personale nuovo, divise nuove per tutti gli OSS, classiche questa volta, rigorosamente bianche con tanto di bandana obbligatoria. 

Ma se pensate che il passo strisciato a testa bassa ci abbia impedito di creare strategie nuove di coinvolgimento, allora vi sbagliate. 

Ecco che nasce il  Quartiere Solidale  in stretta collaborazione con la parrocchia di Rupinaro e l’Associazione I Fili. Oggi, 18 ottobre 2015, il parroco, durante le due messe del mattino, ha lanciato l’appello per dare concretezza alla nostra idea.

Come ho già detto al Km 5, “i punti di ristoro vanno rispettati, tutti, ma non ci si può soffermare troppo”.

Ci siamo rinfrescati abbastanza, ora  dobbiamo ripartire, a testa alta, con in mano il volantino del progetto e con un unico pensiero in testa: “ABBIAMO AVUTO UN’ IDEA …CI AIUTI A SVILUPPARLA?”.

Maratona Km 9 sospesa per alluvione

Il 22 ottobre 2015 la maratona “Arco della vita”, dopo ben 5 anni dalla partenza, era giunta al primo spugnaggio al Km 7,5. Era stato difficile arrivarci, gli ultimi chilometri li avevamo percorsi a zig zag e a testa bassa, con passo strisciato per via della formazione obbligatoria del personale di assistenza geriatrica, imposta dalla normativa vigente.  

Il risultato era stato epocale: gli operatori  di Casa Morando  non in possesso del titolo di OSS  se ne erano andati preferendo  altre soluzioni lavorative e la formazione “Arco della vita”, caposaldo del nostro progetto,  sulla quale tanto avevamo investito, si era dispersa per la città.

Dopo un iniziale periodo in cui il turnover del personale aveva creato  un certo sconforto sia per la gestione dei turni,  sia per l’impatto provocato sugli anziani ospiti, eravamo ripartiti, con grande determinazione, proponendo altri due progetti, uno rivolto all’interno,  “Parliamone insieme” condotto da Alessia, psicologa, nonché membro del CDA della residenza, l’altro all’esterno, in collaborazione con la parrocchia Rupinaro e l’Associazione I Fili che abbiamo chiamato “Quartiere solidale”. 

Sempre presente nella nostra mente la necessità di “ creare, per ogni realtà, un modello organizzativo proprio che, facendo tesoro di quanto la vasta letteratura in materia ci insegna, sappia tradurre in termini applicativi queste informazioni e sappia adattarle al contesto ed alle esigenze individuali investendo soprattutto sulle risorse umane, nel rispetto dei diritti e delle prerogative inalienabili della persona, declamati a gran voce da tutte le organizzazioni internazionali, ma, così difficili, da raggiungere nei fatti concreti”.

Credere nelle risorse umane: dal tessuto sociale al sincizio sociale con sguardo antropologico”: è proprio questo il sottotitolo del progetto “Arco della vita” presentato ufficialmente nel Tigullio orientale nell’aprile del 2011.

Come sempre, però, bisognerebbe intendersi sul significato delle parole. E mai fare i conti senza l’oste.

Infatti, se si escludono tra le risorse umane i decisori, gli amministratori, gli ispettori, coloro che devono far applicare le norme in tutte le loro sfaccettature, talvolta sfumate, confuse e quindi interpretabili ora in un modo ora in un altro, ecco che cade l’asino: il metodo  diventa inapplicabile e le enunciate finalità difficili  da  concretizzare. 

Ciò nonostante siamo andati avanti ed abbiamo raggiunto, quasi,  il km 9.

Lo spazio aperto, accessibile dal retro della residenza, così chiamato giardino sensoriale, è ormai utilizzato a pieno regime soprattutto nelle stagioni intermedie. Il percorso è accessibile a tutte le persone con disabilità  per l’abbattimento delle barriere architettoniche e nel laghetto artificiale sono nati numerosissimi pesciolini dai 5 sopravvissuti dei 10 capostipiti.  La moria iniziale ci aveva preoccupato non poco, il laghetto, le cui acque si intorbidivano sempre di più  ad ogni pioggia, era stato prosciugato, i pesci rossi curati a dovere, mantenuti in una vasca al coperto all’interno della palestra  e atteso la primavera prima di rigettarli in acqua all’aperto. Contarli ora è impossibile, ce ne sono di tutte le misure, i più piccoli sono grigi, nonostante il laghetto  si mantenga  torbido, per ragioni ancora del tutto da chiarire, ma certamente in qualche modo legate a quelle che si chiamano in-competenze umane. Speriamo che, prima o poi, i tecnici riescano a risolvere questo problema che, comunque, non sembra affatto compromettere la fertilità degli abitanti. Meglio così: la natura ha sicuramente infinite risorse.

Anche la palestra è stata fino a poco tempo fa  sfruttata  dal mattino alla sera  e non solo per favorire l’attività ginnica degli ospiti, ma anche per promuovere le relazioni tra le persone, familiari, giovani nonché la nostra pet therapy permanente egregiamente svolta da Asso e Felicity, con il loro scorrazzare indisturbato  tra attrezzi e carrozzine, esigendo carezze e , meglio ancora, qualche pezzo di pane secco, gelosamente custodito dall’uno o dall’altro ospite in cambio di una musata  accompagnata dall’ incessante scodinzolare. La più gettonata è decisamente Wanda, per la semplice ragione che ha sempre a disposizione pacchetti di cracker che scarta con meticolosa attenzione ed elargisce con grande generosità.

Il suo sorriso, mentre Felicity le salta in grembo, testimonia  il suo ben-essere.

 Ci vuole tanto poco! Penso io.

La palestra, quando il maltempo impedisce l’accesso agli spazi esterni, è anche  il luogo in cui si  accolgono  i ragazzi della scuola che vengono a fare i compiti e la merenda  in Casa Morando ogni venerdì pomeriggio. Lo chiamiamo “Il pomerando” ed è davvero un momento di gioia per tutti, in cui i valori, quelli che contano, che non hanno prezzo, come la dignità, il rispetto, la fiducia, la speranza, il senso della vita,  dopo aver aleggiato nello spazio per un tempo indefinito, entrano nella coscienza degli uni e degli altri e vi rimangono per sempre.

La foto sottostante riprende il pomerando di oggi. Cosa facciano ammucchiati  attorno al tavolo non lo so, ma si divertono. Un po’ in disparte due ragazzi tirano  calci al pallone e la vecchia Teresa e il giovane gallo Fortunello hanno il loro daffare per evitare di essere colpiti.

Il quartiere solidale invece non è decollato, nonostante il parroco avesse distribuito i volantini al termine della messa domenicale, con l’invitante frase “Abbiamo avuto un’idea … ci aiuti a svilupparla?

Ci siamo chiesti perché nessuno, proprio nessuno, avesse colto il nostro appello e l’unica risposta che ci siamo dati è  quella di non essere stati sufficientemente chiari sulla gratuità della nostra proposta e/o sul fine che ci eravamo prefissati: mettere a disposizione delle persone le competenze di cui ognuno di noi è  portatore,  se non altro,  quelle idee, a volte un po’  strampalate, che nascono dall’intelligenza emotiva e che  ci aiutano a stare meglio in questo mondo. 

Sul condominio solidale, poi, neanche a parlarne.  Troppo ricambio di decisori, dalla regione, ai comuni, alla ASL, in ben altre e più importanti faccende affaccendati.  Importanti per chi? Mi chiedo. Possibile che  in questo pianeta l’apparente  bene individuale superi di gran lunga il bene comune?  Questo è il pensiero che si affaccia alla mia mente, ma non mi piace e cerco di dimenticarlo.

Comunque sia, passo dopo passo, il cartello del km 9, si intravedeva, subito dopo un ponticello, dal pavimento di legno,  sospeso su un ruscello  che la pioggia, iniziata da poco, ma tempestosa, aveva riempito in men che non si dica  sicché le acque stavano superando gli argini.

Mancavano poche  decine di metri, quando il ruscello è esondato, fortunatamente procurando pochi danni alle strutture e nessun danno alle persone;  se non che, per ragioni di sicurezza, la maratona è stata sospesa. 

Sospesa per alluvione, a data da destinarsi, e chissà se varranno questi 9 km o se si dovrà ricominciare tutto da capo? La  maratona è, come la vita, piena di imprevisti, ma ormai siamo partiti  e non crediate che ci demoralizzeremo  per una battuta d’arresto.

Volete sapere cosa è successo nella realtà dei fatti? Ve lo dico subito.

Non molti giorni fa, a seguito di ripetute piogge, la palestra, inaugurata da pochi mesi,  si è allagata per una infiltrazione d’acqua  che ha deteriorato alcuni pannelli della controsoffittatura del tetto. Ovviamente è stata resa inagibile ed è stato necessario fare un esposto al direttore dei lavori di costruzione affinché provvedesse a riparare il danno nel minor tempo possibile.  

Per tutta risposta è pervenuta una denuncia per aver montato,  in modo abusivo, una casetta in legno,  di non più di 4 metri quadrati, atta a contenere materiale di utilizzo quotidiano  della residenza , in particolare i pannoloni. 

Che strana coincidenza! Che strano mondo! Chi mai poteva conoscere che quella strana cosa, come la volumetria, era stata tutta utilizzata per la costruzione della palestra ad esclusivo vantaggio degli anziani?

Insomma,  la casetta abusiva è stata rimossa, i mandanti del comune hanno fotografato lo spazio vuoto dove era ubicata ed ora non ci resta che pagare la sanzione e attendere il da farsi. Quando, come e cosa non si sa.

Come sempre le domande si intrecciano nella mia mente.

Con tutti i problemi legati all’esistenza umana che caratterizzano l’epoca attuale, che senso ha perdere tempo per una piccola dispensa removibile, ubicata in uno spazio privato, non utilizzabile in altro modo?

Lascio a voi la risposta e attendo, con fiducia,  di poter  riprendere a correre, sapendo che al termine del decimo chilometro ci sarà il prossimo ristoro che ci permetterà di prendere fiato.

Scarica le relazioni:

PROGETTO ARCO DELLA VITA

ARCO DELLA VITA SLOW

PREMESSA AL PROGETTO “CONDOMINIO SOLIDALE”

E’ indubbio che la questione anziani è  oggi piuttosto rilevante per i seguenti motivi:

  1. Inarrestabilità del fenomeno della senilizzazione L’incidenza della popolazione con 65 anni o più è passata dall’8,2% del censimento del 1951 al 20,3% di quello del 2011. Negli ultimi 10 anni la crescita più cospicua ha riguardato gli ultra75enni o della “quarta età”.
  1. Svolta verso la vecchiaia L’innesco dell’invecchiamento spesso coincide con eventi patologici precisi o con l’esperienza della perdita; perdita della propria efficienza fisica, degli affetti familiari o del ruolo professionale.
  1. Immaginario collettivo sull’anziano L’aumento dell’aspettativa di vita, una delle più grandi conquiste sociali di questi tempi, tende ad essere percepita come un problema. L’anziano è connotato in negativo, come improduttivo, fragile se non malato, a rischio di povertà, inutile, superato ( culturalmente) ai margini. Un paradosso se si pensa che oggi una persona che arriva all’età anziana ha più anni da vivere in salute, più risorse materiali, più istruzione ( prima generazione di anziani con titolo di studio superiore alla 5° elementare).
  1. Rapporto tra visione della vecchiaia e offerta di servizi disponibili  La visione parziale e errata della biologia dell’invecchiamento determina una connessione tra anziani e servizi ancora problematica. Se si pensa alla vecchiaia come processo immodificabile, del tutto involutivo, i servizi che ne derivano sono di tipo contenitivo e assistenziale, in grado di fornire un intervento anche illimitato nel tempo, ma omogeneo a al minor costo possibile, dal momento che non si attendono risultati. Non essendovi obiettivi da raggiungere, la valutazione individuale dei bisogni  e i relativi interventi passano  in secondo piano. Se, all’opposto, si ritiene che la vecchiaia sia una realtà  modificabile che comporta non solo processi di involuzione, ma anche processi positivi, di compenso attivo alle perdite provocate dall’età, i servizi  necessariamente assumono un  alto contenuto educativo, riabilitativo e preventivo con l’obiettivo di un ampio guadagno in autosufficienza e salute che giustifica   le risorse impiegate.  Diventa prioritario e irrinunciabile un discorso di qualità. In altre parole con questo pensiero si diversificano il più possibile le risposte in rapporto alle molteplici sfumature  delle esigenze della persona che sta invecchiando, privilegiando gli aspetti relazionali.
  1. Fiducia sociale Sembrerebbe fuori luogo parlare di fiducia in questo contesto, ma la fiducia è una cosa importante perché apre uno spazio di relazione nuovo, in cui la legge non è quella del puro egoismo in cui l’io è al centro di tutto, ma dove al centro c’è un noi. Dare fiducia apre ad una reciprocità: se io mi fido di te, tu ti puoi fidare di me ed ecco che dove prima c’è un vantaggio per uno solo, ora c’è un vantaggio per due o per molti. Se poi alziamo lo sguardo e dalle relazioni interpersonali passiamo a quelle legate alla vita sociale, ci rendiamo conto come la fiducia sia uno degli elementi più importanti che definiscono la qualità della vita in una città o in una nazione.

Nonostante la scelta di invecchiare, finché si può a casa propria, sia quella dominante, in Italia, come probabilmente nel resto del mondo, attualmente gli over65enni che non si trovino nella condizione di non autosufficienza totale non assistibile a domicilio, possono contare su una gamma piuttosto limitata di soluzioni abitative,  non tutte disponibili sul territorio nazionale, alcune solo presenti in forma sperimentale. Infatti l’abitazione ordinaria, anche se di proprietà dell’anziano ( quasi l’80% vive in casa propria o di un membro della famiglia) è spesso inadeguata ad accogliere i problemi di chi invecchia ed è necessario pensarci in tempo ( l’età giusta sarebbe intorno a 50-55 anni).  In Emilia Romagna esistono i “Centri per l’adattamento domestico CAAD” costituiti da equipe multidisciplinari ( architetti, ingegneri, assistenti sociali, tecnologi, fisioterapisti) che esaminano i problemi e suggeriscono le soluzioni in base alle esigenze individuali. Purtroppo, in Italia, le risorse pubbliche finalizzate a migliorare le abitazioni di anziani e disabili sono state introdotte solo di recente ( dopo la L. 13/89 sull’eliminazione delle barriere architettoniche) e sono  a tutt’oggi inadeguate per affrontare il problema.

Anche l’abitazione accessibile, di cui si è cominciato a parlare alla fine degli anni ’90, è attualmente stagnante, essendo l’edilizia sociale ormai priva dei finanziamenti di Stato.  Infatti l’ambizioso programma ministeriale promosso con la L21/2001, “ Alloggi in affitto per gli anziani degli anni 2000” e le oltre 100 iniziative di altrettanti comuni per realizzare alloggi accessibili,  sono finiti in un cassetto per mancanza di risorse.

All’anziano restano così ben poche soluzioni: o rimanere in casa propria assistito da un badante che è spesso una persona estranea agli affetti familiari oppure  entrare in un istituto ed accettare la vita di comunità.  Paradossalmente  entrambe le alternative hanno un costo elevato e non a tutti accessibile.

Siamo convinti che gli obiettivi di una politica pro-anziani debbano essere:

  • elevare la qualità della vita per “aggiungere vita agli anni” e mantenere il più a lungo possibile l’autosufficienza attraverso un’ampia fruizione di opportunità formative, culturali, ludico-ricreative, del turismo sociale, dello sport;
  • fronteggiare precocemente i bisogni degli anziani che altrimenti generano situazioni di povertà composite e patologie conclamate che possono richiedere l’allontanamento dall’ambiente consueto di vita e determinano un maggior costo per tutti;
  • favorire le iniziative degli anziani nei gruppi di volontariato e nell’associazionismo di promozione sociale, quali ambiti che attivano la socializzazione, la partecipazione e l’acquisizione di competenze.

E’ necessario quindi mettere in campo tutte le risorse a disposizione ed inventare un nuovo modo di affrontare l’inarrestabile invecchiamento, valorizzandone gli aspetti positivi  e privilegiando la diversità tra le persone.

Da tutto ciò nasce il progetto:

PROGETTO QUARTIERE SOLIDALE

(In collaborazione con la Fondazione Antonio Morando e  la Parrocchia di Rupinaro)

Un servizio per rilevare le problematiche e attivare relazioni di aiuto fra i bisogni degli anziani (e non solo) e le risorse sociali del territorio.
Un servizio che cerca di individuare le potenzialità residue dell’anziano e di favorire un buon livello di autonomia ed una partecipata progettualità della propria vita quotidiana,

La necessità di fornire risposte appropriate alla domanda di salute e assistenza , espressa soprattutto dagli anziani, implica l’attivazione di nuove forme assistenziali, rispetto a quelle offerte attualmente.

La letteratura disponibile sull’invecchiamento attivo:

La persona e la casa sono l’irrinunciabile della dimensione della domiciliarità di ciascuno di noi, di ogni persona. La persona abita nel suo corpo, nella sua casa, nel suo INTERO e nel suo INTORNO.
La casa cura, fa bene, fa salute. (Bottega Del Possibile Torre Pellice); «la casa rimane il luogo ideale in cui ricevere trattamenti medici, terapie o cure di riabilitazione da personale qualificato. I cittadini sarebbero disposti anche a pagare un contributo al Servizio sanitario pur di evitare il ricovero in ospedale». Maria Giulia Marini, direttore dell’area sanità della Fondazione Istud Lombardia.
“Nel loro ambiente consueto i malati cronici e non autosufficienti stanno meglio, si sentono meno soli e si allevia così anche il peso della malattia e la sofferenza – Francesca Moccia, coordinatrice del Tribunale dei diritti del malato-Cittadinanzattiva —Lombardia.

Le tante modalità di intervento, le leggi, i piani regionali inducono sempre più a pensare di intervenire prima.

Arrivare preparati … cercare di essere un anziano cognitivamente e autonomamente conservato.

Si sente parlare di portierato sociale,

di custode sociale,

di badante di condominio.

La Fondazione Morando attiva sul territorio come Residenza Protetta, giornalmente riceve richieste di assistenza e di aiuto alle quali non può e non riesce a dare risposta.

La Parrocchia di Rupinaro nella quale è attivo un centro anziani, nel momento di maggior bisogno si trova costretta a non poter rispondere con azioni concrete.

L’associazione I Fili entrata in contatto con questa due realtà ha avuto modo di monitorare i bisogni, i desideri, le speranze e le paure degli anziani del quartiere,durante incontri finalizzati dal titolo “come vorrei crescere vecchio”.

L’incontro di queste tre realtà ha fatto pensare che insieme si possa dar vita al quartiere solidale.
Cosa potrebbe e vorrebbe fare il quartiere solidale.

Verifica delle forze da mettere in campo ( Strumenti, volontari ecc) dei soggetti coinvolti.
Rilevazione dei  problemi degli anziani che risiedono nel quartiere (stato di bisogno per solitudine, condizione di salute o per l’abitazione).
Ricerca delle risposte più adeguate.

Obiettivo del servizio:

Mantenere il piu’ possibile l’anziano autosufficiente presso il proprio ambiente di vita
Intercettare le situazioni di rischio e di disagio
Sorveglianza – supporto – monitoraggio delle situazioni di fragilita’
Attivare e ampliare le reti territoriali e personali dell’anziano.

Servizi erogati:

Compagnia telefonica
Visite domiciliari per compagnia
Accompagnamenti all’esterno, piccole uscite
Accompagnamenti visite mediche e\o incombenze varie ( posta, uffici ecc)
Piccola spesa
Monitoraggio, controllo per prevenire situazioni di rischio
Organizzazione settimanale di momenti di socializzazione e laboratori creativi
Aiuto nel disbrigo di pratiche burocratiche e collegamento con i servizi socio sanitari,
un servizio complementare rispetto all’assistenza domiciliare erogata dai Comuni
Collaborazione con il Medico

Risultati attesi

Limitare gli ingressi a carattere definitivo in strutture residenziali, legati all’insorgenza di difficoltà familiari e sociali
Ridurre i ricoveri ospedalieri e le giornate di degenza fornendo un’alternativa di cura e assistenza
Favorire l’integrazione e la condivisione di risorse umane e tecnologiche
Coinvolgere in modo attivo le reti solidali del volontariato
Attivare un monitoraggio continuo della situazione del quartiere presidiato

In breve:

Entrare in contatto con le persone più fragili, per ascoltare e rispondere

Promuovere la solidarietà intergenerazionale

Mettere in atto iniziative che contribuiscono a creare legami di solidarietà tra i cittadini e le generazioni.